Definire le parti comuni di un condominio non è cosa facile, soprattutto allorquando ci si rende conto che lo stesso legislatore all’articolo 1117 c.c. non fornisce una definizione di parti comuni, limitandosi ad indicare quali sono le parti dell’edificio da considerarsi in comunione tra tutti i condomini ed il regime giuridico al quale sono sottoposte.
Uno degli ultimi studi disponibili in materia, elaborato dal Censis, evidenzia come il valore del contenzioso condominiale risulta stimato in circa il 4% del totale dei processi civili pendenti, ossia in circa 180mila cause.
Si deve considerare che la maggior parte dei contenziosi nascono sulla determinazione di modi/tipi d’uso delle parti comuni, e questo dovrebbe bastare a comprendere l’importanza di determinare una definizione unanimemente condivisa.
Ebbene, l’art 1117 c.c. opera una analitica esposizione dei beni comuni suddividendoli in necessari all’uso comune, beni comuni di pertinenza e beni comuni accessori.
Definire cosa sia una parte comune rimane, comunque, un’esigenza che travalica i puri fini accademici, poiché la questione ha dei risvolti pratici rilevanti soprattutto in ordine al regime delle spese e della proprietà.
Alla luce della disposizione codicistica e sulla scorta delle diverse pronunce giurisprudenziali in materia, si possono definire le parti comuni come quelle frazioni dell’edificio condominiale di proprietà di tutti, utili (e il più delle volte indispensabili) all’esistenza stessa del condominio.
Sebbene vengano date delle linee guida si noterà come il legislaotre abbia introdotto un principio di presunzione delle parti comuni, la dove l’articolo 1117 c.c. così dispone:
“la presunzione legale da essa posta può essere superata solo dalla prova di un titolo contrario, che si identifica nella dimostrazione della proprietà esclusiva del bene in capo ad un soggetto diverso”; ebbene, secondo la recente giurisprudenza, questa “prova non può essere data dalla clausola del regolamento condominiale che non menzioni detto bene tra le parti comuni dell’edificio, non costituendo tale atto un titolo idoneo a dimostrare la proprietà esclusiva del bene e quindi la sua sottrazione al regime della proprietà condominiale (Cass. n. 17928/2007; n. 6175/2009). Il regolamento di condominio, infatti, non costituisce un titolo di proprietà, ma ha la funzione di disciplinare l’uso della cosa comune e la ripartizione delle spese” (Cass. n. 13262/2012).
Il concetto di proprietà comune, con la nuova formulazione dell’art 1117 c.c. , introdotta a seguito della recente riforma, prevede che le parti oggetto di comunione siano a disposizione “dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, anche se aventi diritto a godimento periodico” , pertanto, questa ultima specificazione fa sì che venga superata la “classica” concezione di proprietà comunemente intesa, investendo, appunto, del diritto all’utilizzo anche i soggetti titolari di un diritto di proprietà limitato nel tempo (c.d. proprietà a “godimento periodico” , più comunemente conosciuta come multiproprietà).
Una utile classificazione di “scuola” dei beni comuni
Sono da intendersi beni comuni:
• Suolo su cui sorge l’edificio
• Fondazioni ed i muri maestri
• Pilastri e travi portanti
• Facciate
• I tetti, sottotetti, lastrici solari e terrazze a livello
• Antenne
• Portoni d’ingresso, anditi ( o androni) e scale
• Cortili
• Parcheggi condominiali
• Ascensori
• Portineria, lavanderia e sale di riunione
• Impianti
L’elencazione di cui all’art. 1117 c.c. non ha carattere esaustivo né inderogabile.
La stessa espressione utilizzata dal legislatore nell’accompagnare tutti i beni elencati con il termine “come”, nonché le formule di chiusura utilizzate al punto 1) (“tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune”) e nei successivi punti 2) e 3) (“i locali per i servizi in comune; “le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all’uso comune”), intendono dare un respiro più ampio alla norma contenuta nell’art. 1117 c.c., permettendo così all’interprete di valutare di volta in volta la condominialità dei beni.
È principio pacifico anche in giurisprudenza che la disposizione di cui all’art 1117 c.c. pone una presunzione di condominialità per i beni ivi indicati, secondo un’elencazione non tassativa, poiché derivante “sia dall’attitudine oggettiva del bene al godimento comune, sia dalla concreta destinazione del medesimo al servizio comune” (Cass. n. 13262/2012).
I caratteri delle parti comuni
L’art 1118 c.c. prevede che il condomino non possa rinunciare ai diritti sui beni comuni né sottrarsi all’obbligo di contribuire alle spese per la loro conservazione, poichè le parti comuni dell’edificio sono strumentali al godimento delle proprietà dei singoli. Ebbene neanche il regolamento di condominio di natura contrattuale possa derogare all’irrinunciabilità, salvo che, ovviamente, l’atto di rinuncia sia contestuale a quello sul diritto all’unità abitativa di proprietà esclusiva.
Dal vincolo di destinazione funzionale, così evidenziato, sorgono i caratteri dell’irrinunciabilità e della indivisibilità delle stesse.
L’art. 1119 c.c. sancisce, invece, l’indivisibilità delle parti comuni dell’edificio, “a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino e con il consenso di tutti i partecipanti al condominio”.
Pertanto la disposizione codicistica non prevede l’indivisibilità assoluta delle parti comuni, ma subordina tale eventualità al consenso di tutti i condomini. Il legislatore con tale disciplina ha voluto evitare che pochi condomini potessero avvantaggiarsi di un maggior godimento della cosa comune.
Il godimento delle parti comuni
L’uso delle parti comuni da parte dei condomini è soggetto a non poche limitazioni; i condomini, infatti, possono servirsi delle cose comuni apportando anche modificazioni tali da recare un miglioramento, sopportandone le spese e non alterando la destinazione, o peggio pregiudicandone la sicurezza, il decoro o limitando ad altri un pari godimento (Ex art. 1102 c.c)
Secondo l’art. 1118, 1° comma, c.c. il diritto di ciascun condomino sulle parti comuni, salvo che il titolo non disponga altrimenti, è proporzionale al valore dell’unità immobiliare che gli appartiene.
Nella circostanza di dover determinare l’estensione del diritto spettante a ciascun condomino sulle parti oggetto di proprietà comune, si considera il valore dell’unità immobiliare espresso in millesimi (secondo le tabelle millesimali allegate al regolamento di condominio), avendo riguardo nell’accertamento, ex art. 68 disp. att. c.c., al valore “grezzo”, senza tenere conto del canone locatizio, dei miglioramenti e dello stato di manutenzione, laddove non siano presenti diverse determinazioni rivenienti dai titoli di acquisto o dal regolamento condominiale (originario o contrattuale).